22 settembre 2025

Un paese per vecchi

UN PAESE PER VECCHI


BLA BLA BLA... la solita litania.

Molti ormai non hanno più dubbi: il mondo sembra un film mal scritto, con una regia invisibile che gioca con le nostre vite. Le parole di Orwell risuonano più che mai: «Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato».

Dietro le quinte, istituzioni come il Club Bilderberg, il World Economic Forum, il Club di Roma e la Fabian Society, oppure i grandi colossi finanziari, "The Big Three", BlackRock, The Vanguard Group e State Street Global Advisors, insieme sembrano orchestrare una sinfonia globale, dove ogni nota è studiata per mantenere l'ordine stabilito. Le teorie di Kalergi, pur se avvolte nel mistero, suggeriscono una visione del mondo dove l'unità è raggiunta attraverso l'omogeneizzazione.

In questo scenario, la realtà sembra piegarsi alle leggi del doppio pensiero: «La guerra è pace. La libertà è schiavitù. L'ignoranza è forza». La verità è plasmata, adattata e imposta, mentre le masse, ignare o rassegnate, accettano una narrazione  distorta che le tiene sotto controllo.

Tra le ombre di questo controllo emerge una realtà ancora più tangibile legata a doppio filo con quanto sopra: la crisi della natalità. Non è un fenomeno casuale né un segreto, ma un capolavoro di auto-sabotaggio, dove le politiche, le abitudini e la cultura sociale sembrano intrecciarsi per ridurre silenziosamente le nuove generazioni. In Italia come altrove. Mentre chi osserva dietro il sipario sorride all’armonia fredda di questo disfacimento pianificato e apparentemente inevitabile.

E la rappresentanza politica? 
Uno specchio deformato del paese, che da anni blatera di voler sostenere la famiglia e invertire la tendenza. Una commedia recitata a memoria, dove le promesse sono aria fritta e i soldi—quelli veri—finiscono altrove, in circuiti invisibili, lontani dallo sguardo della gente.

«Ma cosa ci ha spinto, silenziosamente, a fare sempre meno figli?»

L’incertezza è diventata la norma. 
Come si può chiedere ai giovani di generare vita quando l’Italia, dopo la crisi del 2008, è ancora intrappolata nella precarietà economica? Con quali prospettive? In questa nazione dove il tasso di disoccupazione giovanile sfiora il 20% e con stipendi stagnanti, pianificare persino un mutuo diventa un’impresa ardua, figuriamoci sostenere un figlio, il cui costo medio—secondo Banca d’Italia—oscilla tra i 70.000 e i 170.000 euro fino al compimento dei 18 anni.

I servizi, poi, restano un lusso. 
Infatti le promesse politiche più brillanti raramente si traducono in azioni concrete. Solo il 25% dei bambini sotto i tre anni ha accesso a un asilo nido, molto sotto la media europea del 35% e infinitamente lontano dai livelli di paesi come Danimarca o Svezia, dove la copertura raggiunge il 70%. 
Senza la possibilità di conciliare lavoro e famiglia, la scelta ricade spesso sull’abbandono di una delle due sfere: il 20% delle donne italiane lascia il lavoro dopo la nascita del primo figlio. Che potrebbe essere un bene per lo sviluppo del bambino, ma che, senza un adeguato sostegno, grava pesantemente sul bilancio familiare. 

La priorità è il voto, non il futuro. 
Se la politica appare inefficace, è perché i suoi interessi guardano altrove. La demografia italiana è profondamente sbilanciata: con un’età media di 48,7 anni, l’attenzione politica si concentra inevitabilmente sulla fascia di popolazione che conta di più alle urne, gli over 50. 
Il risultato è che le risorse pubbliche vengono sempre più deviate verso i bisogni degli anziani, mentre crisi abitative, ingresso nel mondo del lavoro e istruzione restano in secondo piano. Non a caso, in Italia si spende più per le pensioni che per sanità e istruzione messe insieme.

Riduzione della forza lavoro: 
Meno nascite, meno lavoratori. Una verità lapalissiana che la politica finge di ignorare. Oppure ne cavalca l'onda con l'immigrazione?
Si sta costruendo, con metodica precisione, un paese per vecchi, dove la piramide anagrafica si è ribaltata diventando una clessidra che si svuota inesorabilmente. Meno braccia per produrre, meno menti per innovare, per non parlare della fuga dei cervelli: un suicidio economico annunciato che porta dritto a una perdita di competitività internazionale e alla necessità di assumere forza lavoro dall’estero.

Bene, abbiamo osservato le ragionevoli ragioni causali, permettetemi il gioco di parole,  ma oltre ogni aspetto, oltre le teorie più affascinanti e intriganti, la polis siamo noi.

Il calo dei figli non è soltanto la conseguenza di stipendi da fame o di asili quasi inesistenti; è la somma di milioni di scelte personali. 

È la scelta di una generazione che ha deciso, legittimamente, di privilegiare carriera, autorealizzazione, viaggi e un’illusione di liberta, rispetto a un progetto di genitorialità percepito come una palla al piede. 

Come scriveva Hannah Arendt: «L’uomo moderno ha trasformato la propria vita in un’impresa individuale, e con essa la città in uno specchio dei propri desideri».

Abbiamo inseguito il successo personale, la stabilità finanziaria e l’indipendenza. Non c’è nulla di male in questo: sono desideri, ambizioni naturali. Possiamo però ammettere che il Paese che abbiamo costruito rispecchia perfettamente le nostre priorità?

Le privatizzazioni crescono, e le strutture pubbliche divengono insufficienti. La sanità, una volta diritto universale, rischia di diventare un privilegio per pochi; la scuola, terreno di uguaglianza e speranza, può trasformarsi in un lusso solo per chi può permettersela. 

Ogni mancanza, ogni carenza, è la fotografia di un’Italia che ha scelto la competizione ammantandola di meritocrazia e la disoccupazione funzionale dipingendola come selezione naturale. Homini homo lupus e adesso paghiamo il prezzo di un tessuto sociale sempre più fragile e diseguale.

Se continuiamo a lungo questa china, non sarà più solo la demografia a soffrire: sarà l’anima stessa del Paese a vacillare. 

Come ammoniva Tocqueville, «La democrazia non è soltanto un sistema politico: è lo specchio delle scelte e delle abitudini del popolo».

La domanda, allora, non è più perché la politica non abbia invertito la rotta, ma se davvero, in fondo, lo abbiamo mai voluto.

Lascio a voi il compito di confutare queste mie provocazioni. Scrivete nei commenti. 

Un abbraccio.



18 settembre 2025

Come si Fabbrica il Consenso

 

Come si Fabbrica il Consenso.

Di solito non mi espongo in dichiarazioni allarmanti, ma francamente in questo momento storico, ve lo dico apertamente "sono preoccupato". L'attuale clima mediatico in Europa, che sembra spingere le popolazioni verso una preparazione bellica ingiustificata e inaccettabile, è un esempio eclatante di come il consenso non sia un'opinione spontanea, ma un prodotto attivamente fabbricato.

La guerra non è un'opzione. Punto.

L'Italia, per Costituzione, ripudia la guerra. Non come un'opzione secondaria, ma come principio assoluto.
E, cazzo, non dovrebbe nemmeno servire scriverlo in un testo fondamentale. Chi non è un folle con manie omicide sa bene che devastazione, violenza e sterminio non sono strumenti di politica estera, ma il fallimento totale dell'umanità. Vanno evitati. Punto.
Eppure, i media stanno lavorando incessantemente per farci credere il contrario. Stanno spostando la "finestra di Overton", normalizzando l'orrore, trasformando l'inevitabile in desiderabile. Vogliono che accettiamo l'idea che la guerra sia l'unica soluzione possibile, mascherando la propaganda dietro il giornalismo.

Questo video è l'antidoto. Proverò a mostrarti come smascherare questa manipolazione. È un manuale di resistenza intellettuale per non farsi trascinare in un baratro che l'articolo 11 della nostra Costituzione ha saggiamente voluto evitarci.




Ecco come il consenso viene fabbricato: 

Un Meccanismo Inesorabile

  1. La Neurobiopolitica (o Psicobiopolitica) come Strumento di Controllo Totale:

    • Il potere odierno non si accontenta di controllare il corpo (biopolitica), ma mira, con una precisione chirurgica, a dominare la psiche e la mente dell'individuo e delle masse.

    • Questo controllo è tanto più efficace quanto più è impalpabile e subliminale. Non si impone con la forza bruta, ma per seduzione: ti viene detto di fare qualcosa "per il tuo bene", "per la tua salute".

    • L'obiettivo finale è ridurre l'individuo a una "marionetta" inconsapevole, le cui azioni e pensieri sono guidati da un "inconscio digitale" plasmato al di sotto del livello di coscienza e razionalità. Non ti rendi conto di essere guidato.

  2. Il "Velo Virtuale" e il Bombardamento Informazionale:

    • La realtà digitale è un "velo virtuale", una "struttura psicotecnica" costruita per colonizzare la vista e l'udito, i sensi primari della conoscenza.

    • Il suo scopo non è informare, ma occultare le informazioni serie e scomode attraverso una "pletora di dati e informazioni" inutili, le cosiddette "cazzate" (bullshit).

    • Questo "bombardamento informazionale" distrae la psiche, impedisce la riflessione critica e riduce tutte le notizie a un semplice "statuto di merce", privandole di valore reale e impedendo di distinguere il vero dal falso.

  3. Gli "Stregoni" che Dirigono l'Epoca:

    • Dietro questa vasta architettura di manipolazione ci sono gli "stregoni": non sono figure mitologiche, ma grandi gruppi finanziari e corporazioni che detengono il potere in tutti i settori.

    • Sono loro che "impostano i macrofili" e i "colori della rete", decidendo quali informazioni e tendenze debbano circolare, dando l'indirizzo all'epoca. Questi soggetti si muovono in silenzio, influenzando e consigliando, e le notizie tendono a partire da queste organizzazioni ai vertici della struttura mediatica.

  4. La "Finestra di Overton" per Normalizzare l'Impensabile:

    • Il meccanismo più insidioso di questa "ingegneria sociale" è la "Finestra di Overton". Si tratta di una "tecnologia di persuasione occulta delle masse" che consente a qualsiasi idea, anche la più incredibile e inaccettabile, di diventare "normalità" e, infine, "legalizzata".

    • Il processo è graduale e sottile, come quello della "rana bollita" che non si accorge del lento aumento della temperatura fino alla lessatura. Attraverso sei stadi ("impensabile", "radicale", "accettabile", "sensata", "popolare", "legalizzata"), un tabù può essere infranto e reso socialmente accettabile.

    • I media giocano un ruolo decisivo, portando il dibattito "fino al cuore della società" per modificare la percezione del cittadino e fargli appropriare l'idea.

L'Importanza Cruciale di Conoscere Questi Meccanismi

È un dovere ineludibile e categorico conoscere e riconoscere questi meccanismi di manipolazione. Ignorarli significa condannarsi a essere soggetti passivi, plasmati a piacimento dal potere. Significa cedere la propria autonomia, la propria capacità di pensiero critico e di discernimento, rendendosi vulnerabili a qualsiasi agenda imposta, inclusa quella di preparare le popolazioni a un conflitto.

Per evitare di cadere preda della propaganda e delle sue conseguenze nefaste – che in questo contesto potrebbero significare la guerra – devi agire con massima urgenza e determinazione:

  • Studia e approfondisci: Solo avendo basi solide puoi ragionare autonomamente e riconoscere gli inganni. La fatica del concetto è necessaria; la lettura di libri è un antidoto all'immediatezza delle immagini.

  • Sospendi il giudizio: Non credere ciecamente a ciò che ti viene presentato. Distanzia-ti e rifletti prima di accettare qualsiasi informazione.

  • Sviluppa la tua visione del mondo: In un'epoca di confusione epistemologica, è difficile, ma devi sforzarti di costruire una tua prospettiva, non delegare il tuo pensiero.

  • Mantieni una cautela conoscitiva radicale: Non passare da un fideismo all'altro, non affidarti ciecamente a qualsiasi "esperto" o messaggio. Ogni informazione deve essere vagliata con spirito critico.

  • Ricomincia ad "annoiarti": In un mondo frenetico, la noia è il catalizzatore per la scoperta di "mondi dietro i mondi", stimolando la riflessione profonda.

  • Sviluppa "occhi nuovi e orecchie nuove": Devi imparare a cogliere i messaggi che vanno oltre la percezione comune e la narrazione dominante.

Solo così potrai costruire una realtà alternativa allo scenario distopico che ti viene imposto ed evitare di essere un numero nella prossima tragedia voluta da altri.

Un abbraccio


Se hai domande non esitare a scriverle nei commenti.





𝐈𝐥 𝐠𝐞𝐧𝐨𝐜𝐢𝐝𝐢𝐨 𝐝𝐢 𝐆𝐚𝐳𝐚

 𝐈𝐥 𝐠𝐞𝐧𝐨𝐜𝐢𝐝𝐢𝐨 𝐝𝐢 𝐆𝐚𝐳𝐚.

Con tutta la calma che mi è rimasta, trovo vergognoso che media e istituzioni solo oggi svegliati, come da un lungo, colpevole sonno, abbiano trovato il coraggio di dare al 𝐝𝐫𝐚𝐦𝐦𝐚 𝐩𝐚𝐥𝐞𝐬𝐭𝐢𝐧𝐞𝐬𝐞 il suo vero nome.

Che tempismo, non c'è che dire! Arrivano proprio ora che gli ultimi disperati stanno scappando da Gaza City e che l'operazione di 𝐩𝐮𝐥𝐢𝐳𝐢𝐚 𝐞𝐭𝐧𝐢𝐜𝐚 è quasi completa.
Presto, la coraggiosa "𝐆𝐥𝐨𝐛𝐚𝐥 𝐒𝐮𝐦𝐮𝐝 𝐅𝐥𝐨𝐭𝐢𝐥𝐥𝐚 se mai gli verrà concesso di attraversare l'assedio, approderà su un lembo di terra desolata, ormai ridotta a un deserto sotto il controllo degli Israeliani.
Perciò a strage compiuta, dopo aver voltato la testa per mesi, anni, o aver sostenuto una narrazione giustificativa, politici, intellettuali, giornalisti e influencer corrotti, alzeranno la voce, fingendo sdegno. Diranno, con la solennità di chi si pulisce la coscienza, "E' stato un genocidio". Ma questa frase non sarà un'accusa, bensì una sordido tentativo di assoluzione. Un modo per dirsi: " Noi non siamo rimasti in silenzio". A quel punto la loro coscienza, lavata e sgrassata, potrà dormire sonni tranquilli.
Voglio che lo sappiate, 𝐍𝐎𝐈 𝐍𝐎𝐍 𝐃𝐈𝐌𝐄𝐍𝐓𝐈𝐂𝐇𝐈𝐀𝐌𝐎!
La memoria, in questo caso, non è solo un atto di giustizia, ma una necessità per non cadere nella trappola dell'ipocrisia. Non si può ignorare il passato, cancellare con un colpo di spugna anni di indifferenza, di censura e di accuse infondate.
Ricordiamo bene quando il desiderio di solidarietà con il popolo palestinese veniva represso, i cortei dispersi con la violenza, e la voce del dissenso tacciata di antisemitismo o di sostegno ad Hamas. Ricordiamo i manganelli e le accuse che zittivano chiunque osasse deviare dalla narrazione ufficiale.
E non dimentichiamo il caso di Francesca Albanese, la relatrice speciale dell'ONU, che per aver adempiuto al suo mandato e aver denunciato i crimini subiti dai palestinesi, è stata lei stessa oggetto di sanzioni. “𝐏𝐮𝐧𝐢𝐬𝐜𝐢𝐧𝐞 𝐮𝐧𝐨 𝐩𝐞𝐫 𝐞𝐝𝐮𝐜𝐚𝐫𝐧𝐞 𝟏𝟎𝟎” con lo scopo di soffocare la verità, il dissenso e delegittimare chi ha il coraggio di dire le cose come stanno.
La loro "𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑟𝑠𝑖𝑜𝑛𝑒" di oggi non è che il risultato di una situazione ormai troppo evidente per essere nascosta. Quindi la memoria resta, e con essa l'accusa.
Con un sardonico sorriso, mi chiedo se il dilagante cinismo sia sufficiente a sostenere il peso di questa ennesima, teatrale, sceneggiata di stato. E la parte peggiore? E’ una strategia che attraversa ogni colore politico. Non è una questione di destra o sinistra, ma un patto trasversale, una complicità diffusa.
Ricordiamolo quando saremo nuovamente chiamati alle urne.




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13 settembre 2025

Bloquons tout


In Francia è partita la mobilitazione “Bloquons tout” (“Blocchiamo tutto”), con proteste e scioperi diffusi


Che i francesi sappiano protestare è un dato di fatto. L'immagine di piazze piene e barricate incendiate ha un fascino innegabile. Ma prima di cadere preda di facili entusiasmi, bisogna considerare che queste proteste, pur efficaci mediaticamente, sono anche fragili. Come si è visto, lo Stato può rispondere con una forza imponente, reprimendo le manifestazioni con arresti, manganelli e gas lacrimogeni.

Lo slogan "Blocchiamo tutto" suona bene, ma resta un messaggio vuoto se non si traduce in qualcosa di più concreto. Scioperi, disobbedienza civile, insubordinazione fiscale? Staremo a vedere. Oppure, come hanno dimostrato i precedenti focolai di rivolta, è più probabile che passato il brivido del momento, si torni al lavoro, allo shopping… insomma a quelle stesse abitudini che, in fondo, continuano ad alimentare il sistema che si dice di voler combattere. 

Lo capisco, uscire dalla zona di comfort non è per tutti. È esaltante sventolare una bandiera e gridare tra folla, molto meno rifiutarsi di pagare le tasse, opporsi a leggi ingiuste, disertare o cambiare le proprie scelte di consumo. 

Apprezzo le manifestazioni di piazza, ma possono essere facilmente  infiltrate, strumentalizzate o usate come palcoscenico per dinamiche politiche che nulla hanno a che fare con la volontà popolare.

Come un film già visto, le telecamere si spegneranno, partirà la macchina del fango, gli slogan divisivi e la politica del governo, come sempre, cavalcherà l'onda retorica, della “strategia della distrazione” o del “problema - reazione - soluzione” per poi ribadire che in democrazia "l'unica risposta è il voto" e il ciclo si ripete all'infinito, in saecula saeculorum.

Ci hanno convinti che il dissenso abbia solo due strade: la piazza e le urne.

Ma, oltre alle due strade note, come diceva Gandhi, ne esiste un'altra talmente potente che viene spesso taciuta o addiridittura ridicolizzata quando se ne parla, ma contro cui, negli Stati Uniti, si sta già pensando di alzare uno scudo legislativo, come il disegno di legge H.R. 867, noto come IGO Anti-Boycott Act.

E perché questa fretta di metterci un freno? 

Perché il vero potere, quello che non può essere sedato con la forza o con i gas lacrimogeni, risiede nel boicottaggio.

Colpire il portafoglio di chi è al potere è l'unico modo per fargli davvero male.

Hanno paura di questa forza, e hanno ragione. Il boicottagio è l'unica rivoluzione che non possono manganellare.

Le vere trasformazioni non nascono da ondate di rabbia passeggere. Spesso sono nate dall’attivismo di una minoranza consapevole, fiera e risoluta, disposta a sacrificarsi per un bene comune.

Boicottare, pur essendo una forma nonviolenta, è estenuante: richiede tempo, rinunce, sacrifici e non è indenne da rischi. Il sistema risponderà e le conseguenze potrebbero essere drammatiche: perdita del lavoro, il blocco dei conti correnti, l'esclusione sociale e il crollo delle proprie sicurezze. Per questo, serve una comunità solidale, pronta a sostenersi a vicenda.

Ora ti chiedo, sei disposto a rinunciare ai tuoi privilegi e assumerti la responsabilità del cambiamento, oppure preferisci chiudere gli occhi dinnanzi alle storture e accettare lo status quo?

Scrivimi cosa ne pensi nei commenti e... 

non smettere mai di operare per un mondo migliore.



12 settembre 2025

Italand

 ITALAND il paese dei balocchi 



Ah, il Belpaese! Sempre il "capofila", specialmente quando si tratta di eccellere in nuovi,... diciamo così, esperimenti di mercato atlantista. Se un tempo eravamo la culla della civiltà, oggi, a quanto pare, ci stiamo candidando a diventare il parco giochi esclusivo per i Paperoni globali, con tanto di servitori di corte e giullari inclusi nel pacchetto. E tutto ciò mentre ci illudiamo che il turismo sia il nostro "oro nero". Un petrolio fatto di promesse vuote e stipendi miseri, a quanto dicono gli esperti.

Benvenuti nel nuovo, scintillante, medioevo italiano.


Iniziamo con l'elefante nella stanza: la convinzione, ciclicamente rispolverata, che il turismo sia il "motore trainante" dell'economia italiana. Un mantra ripetuto anche dalla presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Peccato che i dati e gli esperti ci raccontino una storia ben diversa, una storia che sa più di tragedia greca che di commedia all'italiana. Il turismo, per quanto rilevante, non ha né il peso né la redditività necessari per sostenere lo sviluppo economico nazionale. Anzi, rischia di accelerare il nostro declino.

Secondo Eurostat, il turismo pesa per un misero 6,2% sul PIL europeo, e in Italia, pur superando la media europea, siamo ben lontani da settori come l'industria manifatturiera (17%) o le attività professionali (11%). E non venitemi a parlare del 13% con l'indotto; quello è un calcolo che include attività che non sono esclusivamente turistiche, una sorta di "gonfiatura statistica" che, come nota Marko Jukic di Bismarck Analysis, non fa che nascondere le esternalità negative: rumore, sporcizia, affollamento, e alloggi che diventano un lusso per chiunque non sia un turista di passaggio.

Ma il cinismo non si ferma qui. Andiamo oltre i numeri del PIL e guardiamo chi tiene in piedi questo carrozzone. Il turismo impiega 1,6 milioni di lavoratori, circa il 6-7% degli occupati italiani. Un'enormità, penserete. Peccato che questi posti di lavoro siano caratterizzati da stagionalità e stipendi medio-bassi, con una paga oraria lorda di appena 16,2 euro, ben al di sotto dei 27,8 euro degli altri settori dei servizi. In un anno, un lavoratore del turismo guadagna il 35% in meno rispetto alla media dei servizi. Non è un'anomalia, cari miei, ma una debolezza strutturale. Il settore si basa su attività a "bassa intensità di lavoro manuale e a basso contenuto tecnologico", difficilmente automatizzabili. Il valore aggiunto per addetto è di 24.900 euro nel turismo, contro i 56.600 euro in altri servizi. In breve, il turismo non rende ricchi, ma produce "servi non qualificati".

E mentre il "popolo" si accontenta delle briciole, i nuovi signori si godono il banchetto.

L'Italia, incredibilmente, è diventata un "paradiso fiscale" per i super ricchi. Grazie a un'imposta sostitutiva, i cosiddetti High Net Worth Individual (HNWI), pagano solo 100mila euro all'anno su tutti i guadagni realizzati all'estero, che siano dieci milioni, cento milioni o un miliardo. Un "trucco" che ha attirato ben 1.136 Paperoni stranieri l'anno scorso, posizionando l'Italia al sesto posto tra i "paradisi fiscali" legali in Europa. E non importa se il governo Meloni ha raddoppiato la flat tax a 200mila euro; per chi ha patrimoni di centinaia di milioni, è una spesa irrisoria. Anzi, un dirigente tributario milanese ha dichiarato che "Così siamo diventati più attraenti della Svizzera".

Aggiungiamo le tasse di successione, tra le più basse al mondo. Un consulente fiscale lo riassume così: "Vivi all’estero, muori in Italia". Questa è l'"Europa parassita" descritta da Angelo Mincuzzi, dove le élite si arricchiscono sempre più mentre i cittadini onesti pagano per tutti, e vengono sottratte risorse a scuole, ospedali e infrastrutture vitali. Non è un'ingiustizia casuale, ma un modello: in Italia il reddito da capitale è tassato al 26%, quello proveniente da società di capitali (Ires) al 24%, mentre il reddito da lavoro dipendente va dal 23% al 35-43%.

Chi lavora paga di più di chi guadagna senza lavorare.

Un modello "bipartisan" per "salva Paperoni", introdotto dal governo Renzi e rafforzato da quello Meloni, senza alcun meccanismo per verificare se favorisca davvero gli investimenti produttivi.

E qui entra in gioco la gentrificazione, un termine "poco descrittivo e molto polemico", ma decisamente "politico". Non è più solo una questione di "imborghesimento", ma di "espulsione della popolazione residente e della sua sostituzione con un’altra popolazione, selezionata su basi di censo". Non è il frutto di una singola volontà, ma un "movimento anonimo e impersonale delle forze economiche".

Attenzione anche alla "sharing economy"(economia della condivisione come Airbnb o Uber) che è anche la "coltre ideologica che copre l’azione reale dei grandi investitori privati". Sono in molti oramai, ad aver "introiettato le modalità d’azione del privato", spianando la strada a chi "de-regolamenta, de-fiscalizza" e "pianifica contrattando col privato lo sviluppo del territorio".

Così, le città diventano strumenti di profitto, perché il loro valore viene sfruttato per fare soldi, in particolare attraverso l'affitto e la vendita degli spazi.

E così, l'Italia sta diventando una Disneyland a cielo aperto, un palcoscenico per "un'economia esperienziale". Le città, quelle che una volta erano casa, cultura e tradizioni, si trasformano in un'attrazione turistica, in cui le periferie non sono più "dormitori alienanti, ma luoghi in cui possa avvenire uno scambio", un eufemismo per dire che anche lì si cerca di "valorizzare" ogni centimetro quadrato. La "turistificazione" aggredisce e annienta ogni luogo, attirando una "popolazione temporanea" di turisti, ai quali offrire spazi "liberati dalla popolazione locale" ma "ricostruiti come se questa popolazione animasse ancora il genius loci".

Lo scenario non è più un'ipotesi, ma una macabra profezia in atto. Le classi sociali più fragili, ormai, sono "destinate ad una migrazione senza fine", espulse dalle città consolidate e relegate a milioni nelle "non-città metropolitane periurbane" (ghetti) a decine di chilometri di distanza. Da lì, vengono richiamate per vestire i panni di camerieri, hostess, barman, facchini, pizzettari, operatori ecologici, guide turistiche, cuochi... un "esercito industriale informale e sottopagato che regge l’experience urbana e la rende competitiva". Il nostro patrimonio culturale e storico, l'arte, la bellezza, diventano la scenografia di questo teatro dell'assurdo. Siamo diventati, o stiamo diventando, una nazione di "proprietari immobiliari e servi non qualificati", con i primi (pochi) che traggono profitto da un'economia della rendita, e i secondi (molti) che sgobbano per salari mediocri, illusi di guadagnare dalle "briciole del trickle down del turismo di massa".

La Croazia, per raggiungere il PIL pro capite della Svizzera solo con il turismo, avrebbe bisogno di 1,93 miliardi di pernottamenti turistici all'anno, una cifra 20 volte superiore all'attuale popolazione delle sue regioni costiere. In altre parole, è una trappola della dipendenza che ci condanna a "attività a basso valore aggiunto" mentre il Nord Europa "avanza verso settori ad alta tecnologia e servizi sofisticati". Il turismo è un "antidolorifico economico" che allevia temporaneamente i dolori, ma non li guarisce.

Quindi, mentre i super ricchi sbarcano indisturbati nel nostro "paradiso fiscale" per godere delle nostre bellezze a un prezzo di favore, gli italiani, con la loro ineguagliabile creatività, diventano gli intrattenitori, i cuochi, i portieri, i camerieri e, perché no, i giullari di corte di questa nuova nobiltà globale. Il nostro inestimabile patrimonio, l'anima stessa dell'Italia, viene silenziosamente svenduto, pezzo dopo pezzo, per creare un'esperienza immersiva e autenticamente "italiana" per chi può permettersela. Il tutto, sotto l'illusione di una "riqualificazione" e di una "crescita" che, in realtà, ci sta trasformando in un feudo per ricchi.

Mentre i nostri antenati, fieri della loro identità e della loro terra, avrebbero combattuto per opporsi a un tale destino, noi, oggi, ci limiteremo ad accettare il nostro ruolo di camerieri o addetti ai servizi, pronti a offrire un caffè espresso e un sorriso forzato?

Un abbraccio e come sempre attendo i vostri commenti. 



Fonti:

https://scenarieconomici.it/turismo-ricchezza-dipendenza-economia/

https://www.lorenzoruffino.it/p/no-il-turismo-non-e-il-petrolio-italiano

Pensieri sul libro di Sandra Annunziata, Oltre la gentrification (editpress, 2022)

https://www.fiscoequo.it/linvenzione-della-flat-tax-e-la-tassa-salva-paperoni-ancora-un-modello-bipartisan-e-perdente/






11 settembre 2025

 

       La parola che non ti aspetti: SERVIRE      




“Sono al suo servizio.” Quante volte abbiamo pronunciato o sentito questa frase? Sembra una forma di cortesia, un gesto di umiltà. Eppure, dietro questa espressione innocua si nasconde una delle più grandi ambiguità del nostro linguaggio. “Servire” è una parola camaleontica, capace di assumere forme opposte: da un lato, nobile atto di cura e solidarietà; dall'altro, brutale e disumana logica di sfruttamento.

L'analisi di due visioni radicalmente diverse ci svela la doppia faccia di questo termine. Da una parte, quella oscura e predatoria, teorizzata da figure come il rabbino Ovadia Yosef. Dall'altra, quella luminosa e altruista, incarnata dalla visione di Papa Francesco e di Don Tonino Bello. È un contrasto così netto che quasi non sembra possibile che entrambe le visioni possano coesistere sotto lo stesso vocabolo.

1) Quando il servizio diventa sottomissione:

La visione del rabbino Ovadia Yosef è cruda e spietata. Per lui, i non-ebrei sono nati per un unico scopo: servire gli ebrei. Un'idea che non si limita a una semplice gerarchia sociale, ma che riduce l'esistenza di miliardi di persone a una funzione utilitaristica. “Lavoreranno, saranno aratro e si occuperanno della raccolta. Mentre noi ce ne staremo seduti come un Effendi a mangiare.” Una dichiarazione che non lascia spazio a interpretazioni: il servizio non è un atto di aiuto reciproco, ma una relazione di dominio e sfruttamento.

Il valore della vita dei non-ebrei viene esplicitamente equiparato a quello di un asino, un animale la cui longevità è misurata in base alla sua capacità di servire il padrone. Questa è una logica che Gilad Atzmon non esita a definire come una chiara dicotomia tra “razza padrona” e “forza lavoro”. È un disprezzo per il lavoro manuale, per la fatica, per l'umano in quanto tale. Atzmon suggerisce una correlazione diretta tra questo tipo di ideologia e le derive più aggressive del capitalismo, dove l'uomo non è un fine, ma un mero mezzo per la produzione e il profitto.

2) L'atto del prendersi cura:

Totalmente opposta è la visione di Papa Francesco. Riprendendo le parole di Don Tonino Bello, il Papa rovescia il concetto di servizio: “Chi non vive per servire non serve per vivere.” Qui, il servizio non è un'imposizione dall'alto, ma una scelta consapevole e disinteressata. È l'atto di “avere cura della fragilità” dell'altro, di difendere, assistere e onorare la dignità di ogni persona. Non si serve un'idea astratta o un'ideologia, ma persone in carne e ossa, con le loro storie e vulnerabilità.

Questa visione non ammette gerarchie di valore tra gli esseri umani. Al contrario, il servizio diventa la misura della grandezza di un popolo. La vera ricchezza non sta nel possedere o nel comandare, ma nel “servire la fragilità dei fratelli”.

L'inganno del servizio: la logica della confusione:

Ed è proprio qui che il termine "servizio" rivela tutta la sua pericolosità. Tra la visione di Yosef e quella di Papa Francesco non c'è una via di mezzo, ma un baratro. La confusione nasce dalla capacità del termine di mascherare intenzioni egoistiche e persino oppressive. Le fonti sottolineano che, nella pratica sociale, la versione dello sfruttamento è spesso quella che si nasconde dietro una facciata di benevolenza. Il “servizio che si serve degli altri” è la chiave di questo inganno. 

Questa ambiguità non è accidentale. È uno strumento potente per confondere le acque, per educare al servilismo, per farci accettare lo sfruttamento come efficienza e il dominio come leadership. Il vero servizio non è mai ideologico, perché non serve idee, ma persone. "

 “Il denaro è libertà, chi paga comanda…” disse Daniela Santanchè

E per capire quale tipo di “servizio” abbiamo adottato, basta osservare chi ne beneficia davvero.

Quale di queste due visioni predomina nella nostra società?

E tu, per cosa vivi?

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Fonti: