«Peggio!» ribatto, sentendo salire quella sana indignazione che conosci bene. «È una contraddizione in termini. La Costituzione promette la sovranità al popolo nel secondo comma, ma nel primo lo incatena al lavoro subordinato. Sai cosa dice l'articolo 2094 del Codice Civile? Definisce il prestatore di lavoro come chi si obbliga a collaborare alle dipendenze e sotto la direzione dell'imprenditore. Capisci la truffa semantica? L'unico potere concesso è all'interno della cabina elettorale e poi sudditi per otto, dieci ore al giorno in ufficio o in fabbrica.»
«Perché il potere non si condivide, si esercita» incalzo io. «E oggi il vero potere non è nemmeno più del "padrone" vecchio stampo. È dell'algoritmo, della finanza apolide. Abbiamo ceduto la sovranità monetaria, l'unico strumento che avrebbe permesso allo Stato di rendere effettivo l'Articolo 3, quello di rimuovere quegli ostacoli economici. Invece? Abbiamo accettato il dogma del "ce lo chiede il mercato...l'Europa". Siamo diventati un'oligarchia tecnocratica. Il lavoratore oggi serve tre padroni: il datore di lavoro che lo sfrutta, la banca che lo indebita e lo Stato che lo tassa per pagare gli interessi a un cartello di banchieri privati a cui abbiamo delegato il potere di creare la nostra moneta... dal nulla e a debito. »
Tu annuisci, e il tuo tono si fa più cupo, empatico. «E pensiamo a chi resta fuori per quella disoccupazione funzionale che Marx indica come 'l'esercito industriale di riserva'. Il sistema ha bisogno che ci siano disperati disposti a lavorare per quattro euro all'ora, o a pedalare sotto la pioggia per consegnare una pizza, pur di restare a galla. La paura della povertà è la frusta invisibile del capitalismo. Altro che libertà! Come diceva Sartre, ‘la libertà inizia dove finisce la necessità’. Se devo lavorare per non morire di fame, la mia non è una scelta. È una condanna.»
Restiamo in silenzio per un attimo. Il rumore della pioggia sembra scandire il tempo di quelle vite sprecate.
«Eppure...» mormori, rigirando il cucchiaino nella tazzina vuota, quasi parlando a te stesso. «C'è un anelito che non riescono a spegnere. La natura primigenia. Se togliessi la paura indotta, cosa resterebbe di queste persone?»
Ti fermi, lasciando che la domanda aleggi tra noi come fumo denso. Poi alzi gli occhi, e non sono più critici, ma profondamente compassionevoli.
«Pensaci bene» riprendi, la voce più bassa e intensa. «Su cosa si regge l'intera impalcatura del sistema attuale? Non sulla lealtà, non sulla passione. Si regge sulla paura. È un'emozione viscerale, rettiliana: la paura di non avere un tetto, di non poter curare i propri figli, di essere esclusi dal branco, di diventare invisibili. Il capitalismo ha preso questa paura biologica e l'ha trasformata in un motore sociale. Ci hanno convinto che senza quella frusta sulla schiena, l'essere umano si accascerebbe nell'inerzia, che siamo pigri per natura, che siamo bestie che vanno domate con la disciplina del salario.»
«È la teoria dell'Homo Oeconomicus» intervengo io. «L'idea che ci muoviamo solo per massimizzare il profitto personale.»
«Esatto. Ed è una menzogna antropologica colossale!» esclami, battendo piano la mano sul tavolo. «Se togliessi quella paura... se domani mattina ognuna di quelle persone là fuori si svegliasse sapendo che la sua sopravvivenza è garantita, che la sua dignità è intoccabile a prescindere da cosa produce... credi davvero che resterebbero a letto a fissare il soffitto?»
Indichi un uomo anziano seduto in fondo al locale, che legge un libro con una lente d'ingrandimento.
«Guarda lui. Non sta producendo nulla per il PIL. Eppure, sta nutrendo la sua mente. Se togliessi la necessità di lottare per pagare il proprio posto nel mondo, vedresti l'infermiere che continua a curare i pazienti, non per i millequattrocento euro al mese e i turni massacranti, ma perché ha una vocazione alla cura che finalmente potrebbe esercitare con i suoi tempi, ascoltando davvero il malato, tenendogli la mano senza guardare l'orologio. Vedresti l'ingegnere che smette di progettare obsolescenza programmata per le lavatrici e inizia a progettare sistemi di irrigazione per le zone aride, solo per la sfida intellettuale e la gioia di risolvere un problema reale. Vedresti l'artista che smette di fare grafiche pubblicitarie per prodotti inutili e torna a dipingere ciò che gli brucia dentro.»
«Vero! Resterebbe l'uomo» rispondo con forza. «L'essere umano che vuole fiorire. Hai letto Amartya Sen? Lo sviluppo è libertà. Non il PIL, ma la capacità di fare e di essere. Immagina se avessimo avuto il coraggio, nel 1948, o se avessimo il coraggio oggi, di riscrivere quell'incipit. Di togliere la parola 'lavoro' e mettere al centro la 'persona'.»
Prendo una penna. La mano trema leggermente per l'emozione dell'idea.
«L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul valore incondizionato e sul benessere di ogni persona...»
«Continua» mi inciti.
«...La sovranità appartiene al popolo, e la Repubblica garantisce le condizioni materiali e spirituali affinché ogni individuo possa realizzare la propria natura, libera dal bisogno e dalla sottomissione.»
«Libera dal bisogno» ripeti tu, assaporando le parole. «Immagina le conseguenze legali. Se il fondamento è il benessere, allora un istituto come il Reddito di Base Universale non è un sussidio, è un diritto costituzionale, sacro come quello di voto. Significa che nessuno può essere costretto ad accettare un lavoro degradante. Il potere contrattuale si ribalta. Il datore di lavoro dovrebbe corteggiare il lavoratore, offrire senso, bellezza, non solo denaro.»
«Sarebbe la fine della guerra sociale» aggiungo io, guardando la gente fuori con occhi nuovi. «Perché un uomo appagato, che non deve lottare per la sopravvivenza, non odia. La competizione feroce che ci insegnano a scuola... è una bugia. L'antropologia e la biologia ci insegnano che siamo nati per la cooperazione, non per la guerra di tutti contro tutti. Se togli la scarsità artificiale, l'avidità perde senso.»
«Chiudi gli occhi un istante» mi dici. «Visualizza questa società. Non è fantascienza. È solo una scelta di priorità.»
Chiudo gli occhi. E la vedo.
LA VISIONE
Non vedo più la folla grigia che corre.
Vedo una città dove il tempo ha rallentato. Non c'è traffico nell'ora di punta, perché il concetto di "orario d'ufficio" è evaporato.
Vedo gli uffici trasformati. Non più luoghi di controllo gerarchico, ma agorà di connessione. Le persone ci vanno perché vogliono creare qualcosa insieme, non perché devono timbrare un cartellino. Chi pulisce le strade lo fa con macchinari avanzati, lavorando poche ore, pagato e rispettato tanto quanto un ingegnere, perché il suo tempo di vita ha lo stesso valore assoluto.
Vedo l'economia, ma è diversa. Non si produce più l'inutile per buttarlo via dopo un mese (l'obsolescenza programmata, la moda usa e getta, lo spreco... sono diventati reati ambientali). Si produce ciò che serve, ciò che è bello, ciò che dura. Le fabbriche sono silenziose, automatizzate, ma i profitti dei robot non vanno a un azionista alle Cayman: finanziano il welfare universale, la salute, la cultura.
Vedo le persone.
Vedo un padre che passeggia nel parco con i figli alle dieci del mattino, senza l'ansia di dover rispondere a una mail.
Vedo giovani che studiano arte, filosofia o astrofisica senza sentirsi dire "con questo non mangerai", perché il loro diritto a mangiare è garantito dalla nascita.
Vedo anziani che non sono "pesi improduttivi", ma mentori, integrati nella comunità, custodi di saggezza.
Vedo la fine della solitudine. Senza la competizione mortale per le risorse, il vicino di casa non è un rivale, ma un potenziale amico. La criminalità è crollata, perché chi è felice e sicuro non ha bisogno di rubare, e chi è curato nella sua salute mentale non ha bisogno di aggredire.
La sovranità è tornata. Le decisioni non le prende lo spread, le prendono le assemblee di cittadini, informati e colti, che discutono di "felicità interna lorda", di aria pulita, di esplorazione spaziale, di cura dell'anima.
Riapro gli occhi. La pioggia cade ancora, ma la disperazione sembra meno densa.
«È possibile» dico, quasi sottovoce. «Basterebbe riconoscere che l'economia è un mezzo, e la felicità è il fine. Abbiamo solo invertito i fattori per troppo tempo.»
Mi sorridi, finendo il caffè. «La legge è fatta per l'uomo, non l'uomo per la legge. Abbiamo il potere di cambiarla. La vera rivoluzione non è nelle piazze in fiamme, è in questo cambio di coscienza. È smettere di chiedere lavoro, e iniziare a pretendere vita.»
«Andiamo?» chiedo.
«Andiamo. C'è un mondo da rifondare.»
Ci alziamo. Non come ingranaggi, ma come esseri umani consapevoli del proprio valore infinito. E uscendo nella pioggia, non corriamo. Camminiamo.
Liberamente ispirato al pensiero dei seguenti autori:
Luciano Gallino: "Finanzcapitalismo" (2011)
David Graeber: "Bullshit Jobs" (2018)
Karl Marx: Analisi del "Capitale"
Serge Latouche: "Decrescita felice"



















