25 novembre 2024

Il grande fratello siamo noi



Il grande fratello siamo noi
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Oggi:
Il suo appartamento era una cella. Non una vera cella, beninteso, l’aspetto era quello di una accogliente abitazione dotata di ogni comodità.

Con un semplice comando vocale, le luci si accendevano, la musica scorreva, la temperatura si adattava.

Persino il frigorifero era dotato di intelligenza artificiale, era come avere un dietologo digitale sempre presente, sempre pronto a suggerire ricette salutari oppure a bacchettare ogni scelta alimentare non corretta.

L’internet delle cose, applicato alla domotica, rendeva possibile tenere sotto controllo ogni elettrodomestico, ogni congegno elettronico della casa mediante il proprio smartphone, un piccolo personal computer tascabile sempre connesso in rete.

Tramite esso, non solo si poteva comunicare e informarsi, ma si poteva costantemente monitorare dalle stanze di casa all'auto, fino ai più intimi parametri vitali, tracciati da sensori invisibili sotto la pelle.

Con la promessa di una sicurezza totale, venne concesso di condividere ogni dato, ogni informazione della propria vita, con un istituto centrale di vigilanza a intervento immediato.

Si, un grande vantaggio che lui sapeva avere un costo; ogni apparecchio elettronico, era un potenziale elemento di spionaggio della sua vita. Il suo smartphone era sempre acceso e lo osservava con occhi e orecchi sempre vegli. La sua casa, l’ambiente e la società, grazie alla diffusione di quei device e a una rete di telecamere a riconoscimento facciale e droni, era divenuto un enorme Panopticon digitale, di cui lui ne era sia prigioniero che sentinella .

"Stai attento, amico," confessò guardandosi allo specchio, mentre i denti del pettine, districavano dolorosamente i suoi capelli aggrovigliati. "Loro sanno tutto, ogni tuo respiro, ogni tuo pensiero. Sei un fantasma in una rete, e la rete è tutto ciò che sei. Senza di essa non esisti"
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Il futuro distopico, quello che un tempo immaginavamo confinato nelle pagine dei libri di fantascienza, è arrivato, abilmente celato dietro la maschera del progresso. Non ci sono robot poliziotti che pattugliano le strade né auto volanti che sfrecciano nei cieli. Non ancora. Al momento, grazie agli smartphone e ai social media, ci sorvegliamo da soli, è la comunità stessa che si è trasformata in un esercito di delatori digitali.

Come è stato possibile?

Grazie a un cocktail di psicologia, tecnologia 
a buon prezzo e servizi omaggio.
“Paywall: quando è gratis, il prodotto sei tu.”

In verità, che eravamo già degli impiccioni patentati lo si capiva dal successo di trasmissioni tipo: “I fatti vostri”, “Chi l’ha visto”, “Il grande fratello” o i vari show di Maria de Filippi. Il nostro voyerismo è sempre stato affamato di drammi altrui. Solo che adesso, con i “telefonini”(diciamolo, sono più potenti di un computer della NASA anni ’70), siamo passati da pubblico a registi: tutti reporter, tutti detective, pronti a immortalare la signora che salta la fila o il vicino che litiga. E via sui social, trasformando il quotidiano in un reality infinito.

In questo modo, nel ruolo di sceriffi da balcone, armati di smatphone ci controlliamo a vicenda, contribuendo ad affermare una distopia che non ha bisogno di un regime autoritario per esistere. E il passo successivo è quasi ovvio: premi in denaro o vantaggi per chi denuncia, come un in gioco a punti. 



Se il credito sociale cinese sembra lontano, aprite gli occhi: il tribunale online è già qui, e tutti noi siamo giudici, giuria e carnefici.

La gogna mediatica 2.0, rapida e spietata: un video, un post, e chiunque può diventare il mostro del giorno, lapidato dal tribunale del web senza appello. Ma attenzione, il vero colpo di genio è l'effetto collaterale: la paura. Paura di dire, di fare, sacrificando libertà e azione sull'altare del conformismo digitale.

Quello che a prima vista appare come un naturale bisogno di relazioni umane, in realtà cela una profonda trasformazione dei nostri rapporti interpersonali e della nostra percezione della realtà: più siamo “connessi”, più i nostri legami si trasformano in contratti sociali sotto osservazione. Dietro ogni like e commento, c'è un controllo invisibile che ci modella, che ci dice cosa dire, cosa fare, come apparire. È il modello panottico che si trasforma in auto-sorveglianza, dove siamo noi stessi i carcerieri, pronti a giudicarci e a regolarci secondo le norme imposte da una realtà distorta, filtrata dai social e dalle aspettative altrui.

Il modello panottico, ripreso da Michel Foucault in Sorvegliare e punire, è la genialata del controllo totale. Prende spunto dal Panopticon di Bentham, una prigione con una torre centrale da cui forse ti guardano, ma tu non lo sai mai. Risultato? Ti auto-censuri, perché il dubbio di essere spiato ti fa comportare “bene”per non essere “castigato”. È il sogno di ogni dittatore, un carcere senza sbarre visibili, dove i prigionieri sono i guardiani di sé stessi. Non ci credi? Guarda i social, sei già dentro. Oggi il panoptico è nei tuoi polpastrelli: smartphone, social, app che ti tracciano meglio di una guardia carceraria. Non serve più la torre centrale: sei tu a geolocalizzarti, postare tutto e consegnare i tuoi dati come un perfetto idiota digitale. Ti senti libero, ma sei sotto controllo 24 ore su 24, analizzato, schedato e venduto al miglior offerente. 1984 di Orwell? Ingenuità. Benvenuto nel fighissimo capitalismo di sorveglianza.

L'auto-sorveglianza è il capolavoro della modernità: non serve un grande fratello, ci pensi tu a giudicarti e a fustigarti per non essere abbastanza “perfetto”. I mass media e gli influencer, sono i predicatori delle nuove cattedrali del consumo: ti vendono canoni di bellezza, successo e felicità patinata, mentre tu ti dissangui nel tentativo di inseguirli. E se fallisci? Purtroppo ti attende l'inferno dell’esclusione sociale, della depressione e di un riflesso nello specchio che odi. La dittatura ora è dentro di te, e l'hai cliccata accettando i “termini di utilizzo”.

Questo comportamento, più o meno consapevolmente, sta dando vita a due fenomeni preoccupanti: Da una parte c'è la nomofobia, ossia il panico da “aiuto, non ho il telefono!”, perché senza il tuo rettangolo luminoso sei un relitto sociale. Dall'altra, l’evoluzione del classico egocentrismo in narcisismo digitale, dove vivi per i cuoricini e i “mi piace”, convinto che la tua colazione o il tuo selfie in palestra cambino il mondo. Due facce della stessa medaglia: schiavi felici di un’attenzione tossica, intrappolati in un loop di notifiche e approvazioni virtuali che ti fanno sentire vivo… ma solo finché la batteria regge.

È ironico e amaro allo stesso tempo riflettere su come la “civiltà dello spettacolo” abbia trasformato il nostro quotidiano in un palcoscenico costante. I valori tradizionali di intimità e discrezione sono stati schiacciati dalla necessità di documentare e condividere ogni momento come nel “Truman Show”.

In questo contesto, la dimensione umana perde il suo significato; l'empatia e la riflessione cedono il passo all’esibizionismo e alla gratificazione immediata. La domanda più inquietante è se, persi in questa corsa per la ribalta, ci rendiamo conto di quanto siamo disposti a sacrificare la nostra privacy ed infine il nostro stesso senso di umanità.

La nostra esistenza è ormai intrappolata in un circolo vizioso, dove gli standard digitali definiscono il tuo valore. La posizione economica e sociale dipende da quanto sei funzionale alla soddisfazione del fabbisogno commerciale indotto dalla moda del momento. Le nostre relazioni sono diventate arene, dove le differenze d'opinione si trasformano in trincee ideologiche, tribù virtuali che si affrontano con una rabbia cieca, pronte a difendere le proprie icone e convinzioni con violenza verbale.

Quando poi volgiamo lo sguardo al futuro, ci troviamo di fronte a una voragine di incertezza. L’avanzata delle “intelligenze artificiali” e dell’automazione non solo cancella posti di lavoro, ma riduce progressivamente l’essere umano a un elemento marginale, superfluo. E in questo scenario di disumanizzazione, le guerre e le devastazioni non solo persistono, ma vengono tacitamente accettate e perfino giustificate come inevitabili.

A confermare questa ignobile deriva, oggi assistiamo a cinquantasei conflitti armati attivi nel mondo, il numero più alto mai registrato dalla fine della seconda guerra mondiale. In questo moto di follia, dove decine di migliaia di civili innocenti vengono massacrati mai, dall’Occidente che si proclama civile e democratico, si leva una sola voce a dire: “Sono disposto a morire pur di fermare queste atrocità”. Gandhi forse si sta rivoltando nella tomba.

Non c’è da stupirsi dunque se siamo guerrafondai, in fondo siamo stati cresciuti a “Panem et circenses” oppure ispirandosi alle Odi “Dulce et decorum est pro patria mori” ( “E’dolce e bello morire per la patria”) di Orazio piuttosto che “È meglio vivere un giorno da leone che cento anni da pecora” frase attribuita a Ignazio Pisciotta, ma resa celebre da Benito Mussolini in un suo discorso. Ancora oggi, la retorica è sempre quella citata dal nostro inno nazionale: “siam pronti alla morte...” cantiamo, con la mano sul cuore, per amor di patria o di denaro, fate voi, del resto, la storia ci insegna che la guerra è un ottimo affare .

Anzi, a ben guardare, il nostro unico vero interesse sembra essere la difesa ossessiva del nostro benessere, come se il resto del mondo potesse bruciare, basta che il nostro comfort non ne risenta. Intolleranza e oppressione, sfruttamento e schiavitù: questi sono i pilastri su cui abbiamo costruito il nostro ipocrita impero di opulenza. Ogni azione è giustificata, purché serva ad alimentare il privilegio di una minoranza che prospera sulle spalle di una maggioranza soggiogata.

La divisione del mondo in primo, secondo e terzo è un'offesa all'umanità. È come stilare una classifica di chi merita di vivere. Saccheggiamo risorse, riduciamo persone a numeri, vite a strumenti, senza alcuna remora morale, e così, mentre a parole ci indigniamo , siamo disposti a tollerare ogni sopruso pur di conservare lo status quo.

Ma quanto a lungo potremo ignorare che questo sistema corrotto e violento non farà altro che divorare tutto, noi compresi? Questa ignavia è il sigillo della nostra complicità, il marchio di un’umanità che ha abdicato alla propria coscienza.

Ironia della sorte? I rotocalchi che contano urlano incessantemente il pericolo del ritorno del totalitarismo, come se fosse una minaccia esterna, un male alieno e distante, completamente scollegato da noi. Come se non fossimo già dentro al sistema che lo alimenta. È solo un altro tassello della manipolazione guidata, un diversivo ben orchestrato per distoglierci dalla verità:

Non ci serve una dittatura per essere privati della libertà: ci siamo rinchiusi da soli e gettato la chiave volontariamente.

Il grande fratello siamo noi.
Forse Platone ha sempre avuto ragione. Siamo ancora lì, nella sua caverna, incatenati e intenti a fissare ombre su una parete, scambiandole per realtà. Solo che oggi non è il fuoco a proiettare quelle immagini, ma gli schermi che ci portiamo ovunque: smartphone, tablet, TV. Sappiamo che c’è un mondo oltre le ombre, ma preferiamo non girarci. Troppa luce fa male agli occhi, e la libertà, quella vera, fa paura. Meglio restare qui, a contemplare l’illusione, confortati dal fatto che almeno non siamo soli nella nostra prigione. Platone, dal suo universo di luce, probabilmente sta scuotendo la testa sospirando: “Ve l'avevo detto.”







1 commento:

Anonimo ha detto...

Condivido! Complimenti per questa analisi.